Chicche di

Cultura Ludica

by Spartaco Albertarelli

Se ogni attore o regista sogna di vincere l’Oscar, analogamente ogni autore di giochi del mondo sogna di poter vincere lo Spiel Des Jahres (SDJ), perché quel premio rappresenta non solo il più alto riconoscimento di critica, ma anche un viatico per non meno di mezzo milione di copie vendute nell’anno della vittoria, che in royalty fanno una bella cifretta da mettersi in tasca. A queste vanno poi aggiunte le copie che facilmente vengono vendute negli anni successivi. Difficilmente, infatti, uno vincitore dello SDJ finisce nel grande calderone dei “mordi e fuggi” che sempre più caratterizza il mercato del gioco da tavolo con giochi anche di ottimo livello che dopo la prima tiratura vengono dimenticati da un pubblico sempre più bulimicamente attratto dalla novità del momento. Uno SDJ, spesso e volentieri, dura nel tempo. A volte per tantissimo tempo.

Per vincere, però, bisogna almeno partecipare e da questa semplice e banale considerazione deriva che il secondo sogno nel cassetto di ogni autore di giochi è quello di essere almeno selezionato nella lista finale, quella dalla quale viene poi scelto il titolo. Sebbene lo SDJ sia uno di quei premi che agli sconfitti lascia giusto le briciole, arrivare nella “short list” è comunque motivo di grande soddisfazione, non fosse altro che per la consapevolezza di aver fatto un buon lavoro (ma comunque anche le “briciole”, a conti fatti, qualche soldino lo portano).
Quello che invece nessun autore di giochi vorrebbe mai, è entrare nella short list esattamente l’anno in cui in lizza c’è un predestinato alla vittoria, anzi, che cosa dico, il titolo destinato a cambiare la storia del gioco.

Ecco quella cosa è capitata proprio a me…
Correva l’anno 1995 e Editrice Giochi aveva iniziato da poco tempo un progetto di sviluppo con l’intenzione di uscire dai confini nazionali, dove dettava legge avendo a catalogo quasi tutti i grandi classici, da Monopoli a Risiko, senza contare D&D e Scarabeo. Titolo di punta di quel progetto era un party game semplice semplice intitolato Kaleidos, che quell’anno finisce appunto nella lista dei tre titoli selezionati per lo SDJ. Quell’anno, come tutti avranno già intuito, vincerà Siedler von Catan

I Coloni di Catan

I Coloni di Catan, gioco dell’anno 1995

Ironia della sorte, oltre ad essere l’autore di Kaleidos, io ero anche il responsabile dell’Ufficio Ricerca e Sviluppo di EG e questo mi portò negli anni successivi a tentare di acquisire i diritti per l’Italia di Catan (com’è ormai chiamato da tutti). Sarebbe stato il titolo perfetto da inserire nel catalogo di Editrice Giochi e avrebbe consentito all’azienda di aggiungere un nuovo grande classico a quelli già presenti. La potenza distributiva di EG era all’epoca tale che ben difficilmente qualcuno avrebbe rinunciato ad essere parte di quel catalogo che garantiva numeri semplicemente impensabili, invece, per ben tre volte, i responsabili della Kosmos, la casa editrice del gioco, fecero scelte diverse. Perché e come andarono effettivamente le cose è una storia interessante, ma me la tengo per un’altra volta. Resta il fatto che, dopo essere stato sconfitto sul campo come autore, dovetti incassare da Catan ben altre tre sconfitte come product manager…
Sono passati tanti anni ormai, quindi potrei tranquillamente vivere la mia vita fregandomene di Catan e godermi i miei onesti risultati (tutto sommato anche lo sconfitto Kaleidos la sua strada l’ha fatta e continua a farla, visto che proprio nel 2020 uscirà l’espansione del 25° anniversario).

Anzi, a ben guardare, potrei quasi quasi godermi una sorta di piccola “rivincita” personale.
Penso che non vi siano dubbi sul fatto che poche persone al mondo potrebbero considerarsi autorizzate ad avere in odio quel gioco più di me, quindi il vero a proprio fuoco antiaereo che ultimamente molti hanno alzato contro questo classico “invecchiato male”, tutto sommato dovrebbe anche farmi piacere. Insomma, un po’ di giustizia a distanza di tempo e il sadico piacere di vedere il mio “odiato nemico” sputazzato da un pubblico che finalmente ne riconosce gli orribili limiti vorrete concedermelo, no?

E invece no, perché il destino, che evidentemente ama farsi beffe di me, mi costringe invece a prendere dita e tastiera e scrivere quello che penso di tutti coloro che parlano a sproposito di Catan. Che poi sono cose non molto dissimili da quelle che, sebbene in altre forme, per anni ho sostenuto nei confronti di chi scrive parole di odio profondo nei confronti di Monopoly.

Monopoli

Monopoli- Che ci azzecca con I coloni di Catan.. Allacciate le cinture e tenetevi forte stiamo per stupirvi con effetti speciali

Vediamo di capirci: Catan può farvi letteralmente schifo e siete ovviamente liberi di esprimere tutto il vostro disgusto personale nei confronti di questo come di qualsiasi altro gioco, però fatemi (anzi fateci) la cortesia di non scrivere cazzate in merito al fatto che si tratti di un titolo di “una volta”, quasi che la “modernità” sia garanzia di maggiore qualità. Catan è un capolavoro del game design e il suo autore (Klaus Teuber per chi proprio non lo sapesse) è riuscito nella straordinaria impresa di trasformare Monopoly in un gioco “moderno” (perché questo è Catan, in estrema sintesi), mettendo in atto tutta una serie di “trucchi del mestiere” che sono e restano un pilastro fondamentale del game design.

Catan è la punta di diamante di quella categoria di giochi che viene genericamente definita “German”, termine che non ha nulla a che spartire con quell’altra tipologia di giochi che spesso gli appassionati nostrani definiscono “cinghiali”. Sono due cose diverse, cacciatevelo nella testa. I tedeschi non odiano i dadi e un po’ di sana casualità nei giochi, amano poter prendere delle decisioni quando giocano e magari farlo attraverso sistemi che inducono a un qualche ragionamento, ma quei cubetti colorati con i puntini sopra li hanno sempre utilizzati con piacere.

Catan è un capolavoro, perché contiene, tutte insieme, una serie di meccaniche di gioco che hanno avuto (e continuano ad avere) un impatto fondamentale sul game design “moderno”.

È geniale il sistema di “attivazione aree” che, diversamente da Monopoly, non dipende dal movimento di un segnalino lungo un percorso, ma dalla generazione di un numero casuale che “accende” specifiche zone sul piano di gioco, la cui attivazione può coinvolgere non un singolo giocatore, ma più d’uno.

È geniale aver inserito elementi gestionali, pur restando nel solco del gioco di scambi e contrattazioni, che è il cuore di Monopoly.
È geniale aver creato un sistema che, pur ricalcando l’idea di “arricchimento progressivo”, evitasse l’eliminazione dei giocatori o, comunque, la loro progressiva e ineluttabile disfatta (che pure avviene, intendiamoci), dandogli se non proprio la certezza, almeno l’illusione di essere ancora in gioco fino alla fine.

È geniale aver creato un gioco economico, privo di denaro, ma interamente basato sul baratto.
È geniale aver creato un sistema di plancia modulabile, utilizzando elementi esagonali tanto cari ai “giocatori intelligenti”, per creare uno scenario di gioco ogni volta diverso ed è infine geniale aver trovato una perfetta sintonia tra la componentistica e il tema, senza contare l’iconica immagine del sole che sorge in copertina, quasi a voler gridare a tutti “questa è l’alba di una nuova epoca per il gioco da tavolo”.
Ma, soprattutto, è stato geniale mettere queste cose tutte insieme in un singolo gioco.

Tutte queste cose non sono geniali viste in retrospettiva, sono idee straordinariamente contemporanee, che ogni game designer dovrebbe studiare e analizzare profondamente, perché se Catan ha venduto milioni di copie e continua a vendere milioni di copie, esattamente come Monopoly, non è per qualche bizzarro complotto o perché il mondo non capisce quanto siete fighi voi, ma perché quel gioco (e vale anche per quell’altro) contiene elementi che lo rendono perfetto per quello che deve fare e per cui è stato progettato.

Nota della redazioneQuando circa 3 anni fa, Obelix propose di recensire alcuni grandi classici, in redazione ci fu scetticismo: “A cosa serve una recensione di un gioco che tutti conoscono?“. Questa è l’occasione in cui rendiamo merito al nostro decano. Negli ultimi 365 giorni (dalla data di pubblicazione dell’articolo) le recensioni:

E, se vogliamo dirla tutta, i corrispondenti articoli dedicati a Carcassonne  fanno addirittura molto meglio.

Ecco perché -dati alla mano- concordiamo pienamente con la seguente affermazione di Spartaco:

Non vi garba? Siete meravigliosamente convinti che i giochi fatti oggi siano “meglio”? Avete in odio tutto quello che non fa parte dalla nicchia autoreferenziale nella quale tanto bene vi trovate? Siete convinti di essere esperti perché avete giocato tanti giochi? Pensate che se un titolo diventa “mainstream”, automaticamente debba essere inferiore a quelli che giocate voi, nel vostro ristretto gruppo di amici?

Liberissimi ovviamente, così come siete liberissimi di usare le vostre tastiere per dire che Catan è “invecchiato male”, ma lasciatemi dire che la “cultura del gioco” non passa da queste invettive prive di qualsiasi base di reale conoscenza. La cultura del gioco (ma direi la cultura in generale) passa attraverso la comprensione dei fenomeni, lo studio e, consentitemelo, anche attraverso un po’ di sana umiltà.

PS: queste considerazioni le ho scritte prima di andare alla fiera di Norimberga, dove, se lo incontrerò, chiederò a Teuber, per l’ennesima volta, “ma a te cosa diavolo cambiava produrlo l’anno dopo questo giochino (che oltretutto sta invecchiando male)?”…